Troppo sale favorisce infiammazione nel corpo e malattie autoimmuni

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    Alessandra

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    Azzano Decimo (PN)

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    C’è un motivo in più per mangiare insipido, o comunque per “regolare” le quantità di sale aggiunto alla preparazione delle pietanze casalinghe. Secondo uno studio condotto all’Università La Sapienza di Roma, dalla UOC di Reumatologia del Policlinico Umberto I, il sodio in eccesso oltre ad alimentare il noto rischio di problemi cardiovascolari, potrebbe stimolare anche l’insorgenza di malattie autoimmuni. Una spiegazione possibile, dicono gli esperti, all’incidenza di artrite reumatoide e lupus sistemico, aumentata nel corso degli ultimi anni soprattutto nei paesi industrializzati. Quelli in cui il consumo di sale è ben al di sopra delle soglie di sicurezza raccomandate dai massimi organismi di tutela della salute, tra cui l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e il nostro Ministero della Salute.

    Il sale «infiamma» le cellule

    Il sospetto era già sorto a seguito dei risultati di almeno due studi internazionali di laboratorio, condotti cioè su animali, che avrebbero dimostrato le potenzialità del sodio di infiammare, anche in modeste quantità, i linfociti T helper 17, ovvero particolari cellule presenti nel sangue e dotate di una capacità altamente infiammatoria in contesti predisponenti. Da queste ipotesi si è avviato uno studio italiano, ad opera del gruppo di ricerca del professor Guido Valesini, Direttore della UOC di Reumatologia del Policlinico Umberto I di Roma, con lo scopo di valutare se e in quale misura alcune malattie autoimmuni, su base infiammatoria fra le più diffuse, in particolare l’artrite reumatoide e lupus eritematoso sistemico, potessero essere stimolate dall’influenza del sale.

    La ricerca

    Lo studio ha puntato l’attenzione su due linfociti: gli “infiammanti” T helper 17 e i loro antagonisti, i linfociti Treg, che hanno la capacità di regolare o meglio di inibire l’azione degli “helper”. E per studiarne l’attività, i ricercatori hanno selezionato un gruppo di pazienti volontari, affetti da una delle due malattie autoimmuni, tenendoli a dieta speciale, ovvero modulando ad hoc l’introito di sale per 5 settimane. Per i primi venti giorni i partecipanti allo studio hanno assunto alimenti a basso contenuto di sale, nelle restanti due settimane, hanno seguito una dieta “normosodica” rispettosa delle indicazioni dell’OMS che impone di limitare il consumo di sale a massimo 5 grammi al giorno. Poi per valutare gli effetti del sale sui linfociti T helper 17 e Treg, i ricercatori hanno prelevato nell’arco delle 24 ore differenti campioni di urine misurando i livelli di escrezione di sodio.

    I risultati

    «L’aderenza stretta al regime dietetico - ha dichiarato il professor Valesini – era premessa e requisito essenziale per la validità dei nostri risultati, pubblicati sulla rivista PlosOne». Adesione che è stato possibile misurare proprio attraverso i livelli di sodio: «Considerando che 1 grammo di sale contiene 17 mEq di sodio - ha aggiunto Valesini – se la dieta è stata seguita con costanza e nel rispetto dei dosaggi di sale imposti, l’escrezione di sodio nelle 24 ore deve risultare inferiore a 85 mEq». Valore “equo”, entro i parametri, rilevato solo in 14 pazienti con artrite reumatoide e in 15 con lupus eritematoso sistemico sui quali sono stati così valutati i linfociti T helper 17 e T regolatori, prima dell’inizio della dieta e dopo 3 e 5 settimane. Le premesse dei ricercatori non sono state disattese. Infatti, in questa popolazione di pazienti, è stato possibile osservare nelle settimane di dieta a basso contenuto di sale, un aumento dei linfociti T regolatori e una diminuzione dei linfociti T helper 17 infimmanti. Valori che risultavano invece invertiti dopo 2 settimane di dieta normosodica.


    L’infiammazione acuta

    «I risultati del nostro studio – ha commentato il professore – confermerebbero che uno stile di vita sano, associato ad una dieta a basso contenuto di sale, contribuisce a controllare, addirittura a spegnere la risposta infiammatoria nei pazienti con malattie autoimmuni». Sebbene i risultati ottenuti siano interessanti, cinque settimane sono insufficienti per trarre conclusioni definitive. «È necessario valutare il binomio quantità di sale-risposta infiammatoria della malattia in un arco di tempo almeno di alcuni mesi, durante i quali cercheremo di capire se sia possibile raggiungere un miglioramento sulla riduzione della sintomatologia dolorosa e/o sul numero delle articolazioni coinvolte dalla malattia, anche attraverso un minore apporto di sale».

    Un approccio terapeutico diverso

    Se il prosieguo delle studio confermasse le iniziale premesse, si potrebbe rivoluzionare l’approccio e il trattamento delle malattie autoimmuni: «Oggi ci si avvale soprattutto di terapie antinfiammatorie e farmaci immunosoppressori che agiscono sui due linfociti oggetti di studio – ha concluso Valesini – mentre l’azione positiva anche della dieta sulla cura della malattia avrebbe un impatto importante soprattutto sulla qualità della vita dei pazienti, risparmiando loro possibili effetti collaterali anche pesanti». Un traguardo possibile stante il fatto che le malattie autoimmuni si sviluppano a causa (ma non necessariamente) di un’innata predisposizione genetica associata ad alcuni fattori ambientali e abitudini “infiammanti”, tra cui il fumo. Una speranza per circa il 2% di italiani affetti da malattie reumatiche infiammatorie.


    9 ottobre 2017 (modifica il 10 ottobre 2017 | 10:55)

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